Le società di capitali a ristretta base partecipativa

di Stefano Natali  - 22 Luglio 2015

 La Cassazione pone un freno alla presunzione di distribuzione di utili occulti. Il titolo non deve trarre in inganno, perché l'argomento della presunzione di distribuzione di utili occulti nelle società di capitali a ristretta base partecipativa è ancora attuale e non si intravedono grandi spiragli in favore dei contribuenti. 

La questione poggia ancora su un terreno scivoloso. Un'eccezione può essere ravvisata in questa recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 14176 sez. VI Civ. - depositata l'8.07.2015). 
L'argomento è ormai noto: l'Agenzia delle Entrate, avvalendosi di prove presuntive, una volta accertati maggiori utili in capo ad una società costituita da una ristretta cerchia di soci, spesso legati tra loro da vincoli familiari, imputa pro quota ai soci stessi il maggior reddito accertato.Il ragionamento parte dalla considerazione che se è vero che i dividendi vengono tassati in capo ai soci per cassa e solo a seguito di espressa delibera assembleare che ne autorizza la distribuzione, è altrettanto vero che l'assemblea, non potendo deliberare in merito a utili che la società ha occultato, in virtù della complicità che caratterizza una società costituita da pochi soci, spesso legati tra loro da rapporti familiari, non è illogico ritenere che tali utili, in assenza di prova contraria, siano stati ripartiti tra i soci stessi. La prova che il socio è tenuto a fornire è diabolica: risulta arduo se non impossibile fornire una prova negativa, ovvero non aver percepito utili che l'Amministrazione Finanziaria afferma, invece, essere stati distribuiti.
 La giurisprudenza della Cassazione è piuttosto costante nel ritenere che il ragionamento deduttivo dell'Agenzia delle Entrate sia sostenibile e gli uffici talvolta abusano di questa impostazione a loro favore. Il fatto noto sui cui poggia la presunzione sarebbe la ristretta base sociale, ma quali sono i criteri per stabilire quando una società può considerarsi tale? 
Nella legge non vi è traccia alcuna e quindi tutto viene lasciato al libero arbitrio, e con ciò si alimenta il contenzioso.
 La sentenza in commento apre uno spiraglio pro contribuente affermando che l'accertamento della ristretta base - ovvero il fatto noto - deve essere oggetto di uno specifico accertamento probatorio "...ed invero solo una volta che sia stato stabilito che la titolarità delle azioni e l'organizzazione aziendale sono concentrate in una stretta cerchia personale o familiare, il giudice di merito non può escludere la distribuzione ai soci di utili non contabilizzati, limitandosi a prender atto della inapplicabilità dell'art. 5, D.P.R. 917/1986". Gli ermellini, quindi, pongono l'accento sull'obbligatorietà di una specifica e rigorosa attività di accertamento volta a provare in modo inconfutabile la sussistenza dell'elemento della ristretta base partecipativa o familiare, per poter giustificare l'inversione dell'onere della prova a carico del contribuente. Già, ma quale prova? Alla luce delle esperienze vissute, pare che l'unico elemento che il contribuente possa far valere in simili accertamenti è la dimostrazione che gli utili extracontabili sono stati in qualche modo reinvestiti nella società. Quanto ai limiti per poter stabilire quando siamo in presenza di ristretta base sociale, possiamo affermare che nelle società con un numero minimo di soci che non hanno tra loro alcun apparente legame, forse una via di fuga è possibile, ma laddove vi siano società costituite da soci legati tra loro da vincoli familiari, il cammino appare piuttosto arduo.

 FONTE: SISTEMA RATIO CENTRO STUDI CASTELLI

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