Fringe benefit non dichiarati:

Lunedì 22 Maggio 2016
La Cassazione nella sentenza n. 18146 del 2 maggio 2016 ha affermato che quando la società non assoggetta a tassazione ordinaria le azioni corrisposte a titolo di compenso all’amministratore,
quest’ultimo può vedersi sequestrati i propri beni. Sulla base dei rilievi emersi nel corso di una verifica fiscale effettuata nei confronti di una Spa, veniva riscontrato dai funzionari dell’Agenzia delle Entrate l’omesso assoggettamento a tassazione ordinaria (ai fini Irpef) dei compensi corrisposti a un uomo, nella sua veste di amministratore di una società del gruppo (la controllante). L’operazione economica, dalla quale era derivata l’assegnazione di tali compensi, concerneva l’acquisto delle partecipazioni nei riguardi della società controllata dopo che ne era stato aumentato il capitale sociale per un valore inferiore rispetto a quello effettivo, senza che tale vantaggio economico fosse tassato. Secondo l’impostazione accusatoria, l’assegnazione di azioni ai dipendenti come compensi comportava l’assoggettamento a tassazione del loro importo, in quanto tali erogazioni costituivano fringe benefit che concorrevano alla formazione del reddito da lavoro dipendente (ex articolo 51 Tuir). Il Gip, quindi, ha disposto il sequestro preventivo per equivalente sui beni immobili dell’uomo, indagato, relativamente all’anno di imposta 2008, per il reato di dichiarazione infedele (articolo 4, Dlgs 74/2000). La misura è stata confermata, con ordinanza, dal Tribunale di Roma, secondo il quale la Spa aveva addebitato al conto economico (nell’apposita voce imputata al costo per il personale) un valore pari al costo storico della quota della partecipazione ceduta al contribuente, mediante un aumento non proporzionale del capitale sociale. Ne era derivata una maggiorazione del reddito tassabile ai fini Irpef a titolo di lavoro dipendente, con corrispondente evasione della somma di 1.410.000 euro. L’importo era stato ritenuto pari al profitto del reato, calcolato su un imponibile di 3.280.000 euro, costituente il reddito da lavoro dipendente soggetto a tassazione. L’indagato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo, tra l’altro, che il Tribunale: aveva omesso di motivare la pronuncia, in ordine all’elemento soggettivo del reato, cioè non aveva valutato se l’amministratore aveva scelto deliberatamente e autonomamente di presentare una dichiarazione o se aveva avuto la possibilità di disattendere le determinazioni tributarie assunte dal datore di lavoro, tanto più che nessuna contestazione era stata mossa agli amministratori della società conferente aveva violato gli articoli 321 cpp e 322-bis cp in quanto avrebbe dovuto effettuare una valutazione in merito alla possibilità di procedere alla confisca diretta, costituendo il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente solo l’extrema ratio da adottare quando risulti impossibile il reperimento di beni costituenti il profitto del reato. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, in quanto manifestamente infondato. I giudici di legittimità hanno rilevato che, nel caso al loro esame, veniva contestato non il fumus del reato sotto l’aspetto materiale, ma veniva eccepito solo che la condotta incriminata doveva essere imputata (piuttosto che all’amministratore) alla società conferente, tenuta a operare le ritenute Irpef se avesse considerato quelle somme redditi da lavoro. Formulata in tali termini, la doglianza era priva di fondamento, soprattutto con riferimento all’attività di controllo del giudice in materia di adozione di misure cautelari reali. A tale riguardo, infatti, costituisce orientamento di legittimità consolidato che il controllo del giudice del riesame deve essere limitato alla verifica della corrispondenza della fattispecie astratta di reato, ipotizzata dall’accusa, al fatto per cui si procede, esulando da tale controllo la possibilità dell’accertamento concreto delle circostanze di fatto, attribuite alla cognizione del giudice del merito (Cassazione, 1821/1999). Nell’ambito di tale fase processuale, la Corte ha ritenuto che deve farsi riferimento soltanto all’astratta configurabilità del reato, al rapporto di pertinenzialità tra la cosa e il reato ipotizzato e, se necessario, alla attualità e concretezza del periculum in mora. La Corte ha concluso che permaneva incertezza del motivo di censura della pronuncia impugnata e che, quindi, poteva essere giustificata la richiesta di revoca del provvedimento cautelare. Neppure era idoneo a determinare tale modifica la contestazione concernente l’adozione del sequestro per equivalente in luogo del sequestro diretto. A tale riguardo, infatti, la Corte ha affermato che, in tema di reati tributari, il Pm è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, in luogo di quella “diretta”, dopo aver valutato, allo stato degli atti, il patrimonio del soggetto fisico che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato. Il principio, enunciato dalla Cassazione con riferimento al sequestro per equivalente nei confronti delle persone giuridiche (n. 1738/2014), trova applicazione anche nel caso specifico, soprattutto perché l’amministratore, destinatario del provvedimento cautelare, non aveva dimostrato la sussistenza dei presupposti per disporre il sequestro in forma diretta. Di conseguenza, in mancanza di prova contraria, condizione per poter procedere al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente ben poteva essere l’impossibilità, anche “transitoria e reversibile”, di apprendere il profitto “diretto” del reato tra i beni nella disponibilità del percettore del vantaggio fiscale.
fonte:  DI Romina Morrone  fiscoggi

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