Approda in Cassazione un’interessante questione concernente la rettifica in aumento da parte
dell’Amministrazione finanziaria dei ricavi dichiarati da una Società a seguito della
rideterminazione a valore normale dei prezzi di trasferimento
da questa praticati nella cessione
di beni e prestazioni di servizi alle sue consociate estere.
La vicenda che vede coinvolta la sede italiana di una nota compagnia di telecomunicazioni ha
consentito ai Supremi Giudici la formulazione di principi di diritto nell’ambito di una materia
dai tratti ancora piuttosto incerti per l’operatore e molto dibattuta tra gli interpreti, sia in ordine
alla natura della disciplina, che viene dalla Corte inquadrata all’interno delle norma a finalità
espressamente antielusiva, sia con riguardo ai principi in tema di ripartizione dell’onere
probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente. Il ricorso proposto dall’Agenzia
delle Entrate, affidato a sei motivi di diritto, coinvolgeva anche ulteriori rilievi frutto
dell’attività di verifica prodromica all’accertamento riguardando la rettifica delle perdite
dichiarate dalla società, in esito al recupero a tassazione di alcune componenti negative del
reddito, ritenute dall'Amministrazione finanziaria indeducibili, nonché la ripresa a tassazione,
per l'anno 1998, ai fini IVA, del costo di alcuni servizi di consulenza e ricerca resi ad una
consociata estera e ritenuti dall'Ufficio soggetti ad imposizione in Italia ai sensi del D.P.R. n.
633 del 1972, art. 7, comma 3, e del valore di alcune operazioni commerciali ritenute
inesistenti. Tuttavia, gli esiti di maggiore valenza ermeneutica la Cassazione li raggiunge
proprio con riguardo al rilievo sul transfer pricing che ha stimolato la Corte nella formulazione,
con la sentenza n. 16399/2015, di un interessante riparto probatorio tra prova positiva da
rendersi a cura dell’attore sostanziale del giudizio tributario (i.e.: Amministrazione finanziaria)
e prova contraria ad onere del contribuente/ricorrente.
Com’è noto, la disciplina del transfer pricing, ai sensi dell’art.110, co.7, d.P.R. n.917/86 (già
art.76, co.5), prevede che i componenti derivanti da operazioni con società non residenti nel
territorio dello Stato, le quali direttamente o indirettamente controllano l'impresa o ne sono
controllate o sono controllate dalla stessa società controllante l'impresa nazionale, siano
valutati in base al "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti.
L’analisi dei prezzi può essere condotta facendo ricorso a metodi di tipo tradizionale (confronto
di prezzo, prezzo di rivendita, costo maggiorato) ovvero con metodi alternativi (ripartizione dei
profitti globali, comparazione dei profitti, redditività del capitale investito, margini lordi di
settore).
Nella fattispecie in esame la valutazione di conformità dei prezzi praticati tra le consociate era
stata operata alla stregua del metodo del confronto dei prezzi ritenuto, per giunta, non
adeguato dai Giudici di merito siccome "è stato fatto, non fra prodotti identici fra loro, ma fra
quelli appartenenti ad una stessa generica famiglia e non necessariamente simili come
struttura e composizione" i quali avevano, pertanto, concluso considerando “non raggiunta la
prova che le transazioni poste in essere dalla parte con le sue consociate estere siano avvenute
a prezzi inferiori al normale".
La Corte ha colto l’occasione per ribadire, da un lato, che la disciplina di cui all’art.110 Tuir
“fissa una clausola antielusiva finalizzata ad evitare trasferimenti di utili mediante
l'applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore dei beni scambiati, onde sottrarli
all'imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori”, dall’altro, per operare un
distinguo in termini di assolvimento dell’onere probatorio a seconda che la rettifica abbia ad
oggetto i ricavi dichiarati dalla contribuente ovvero la deducibilità dei costi da questa
sostenuti.
Sotto il primo profilo la pronuncia chiarisce che, per quanto concerne i componenti positivi del
reddito, l'onere di provare la fondatezza della rettifica da transfer pricing incombe
sull'Amministrazione finanziaria, secondo le regole generali in materia e che tale onere resta
limitato alla dimostrazione dell'esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello
scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non
essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell'operazione, “mentre, con
riferimento alle rettifiche dei costi” specificano gli Ermellini “poiché il problema della
ripartizione dei costi infragruppo involge anche il profilo dell'inerenza, oltre che quello
dell'esistenza, l'onere di fornire la dimostrazione dell'esistenza e dell'inerenza di tali
componenti negativi del reddito e, qualora si tratti di costi derivanti da servizi o beni prestati
o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento
che consenta all'Amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi, non
può che ricadere, in forza del c.d. "principio di vicinanza alla prova", sul contribuente”.
fonte: www.ecnews.it