Il trust può venire utilizzato per realizzare un’opera benefica o di interesse pubblico
per
avere la certezza di un efficiente utilizzo delle risorse messe a disposizione dal “mecenate”
e dell’effettiva attuazione del programma che questi ha definito.
Nel nostro Paese, a differenza di quanto avviene ad esempio nel mondo anglosassione, il
mecenatismo è un fenomeno decisamente poco diffuso: incidono forse motivazioni di carattere
culturale, ma anche una certa diffidenza circa l’effettivo utilizzo da parte dei soggetti ai quali
le risorse dovrebbero essere affidate, in special modo se essi sono pubblici, per la realizzazione
delle opere che stanno “a cuore” di chi deve mettere mano al proprio portafoglio.
Anche in un ambito di questo tipo, il trust può rappresentare una soluzione efficiente per
garantire il conseguimento di un obiettivo del genere, dando “tranquillità” al mecenate circa
la concreta realizzazione dell’opera voluta e facendo così in modo che la collettività ne possa
effettivamente beneficiare.
Ma, come sempre facciamo quando ragioniamo sull’opportunità dell’utilizzo del trust in un
determinato contesto, ci dobbiamo interrogare se non esistano nel nostro ordinamento
possibili soluzioni alternative che portino a conseguire i medesimi risultati o se invece il trust,
anche in questo caso, abbia un quid pluris.
Nel caso di specie è evidente come la strada più “naturale” sarebbe quella della donazione:
semplice concettualmente, ma inefficiente all’atto pratico.
E’ infatti evidente che donando una determinata somma ad un ente, privato o pubblico che sia,
il donante non ha alcuna garanzia circa il fatto che i fondi in questione vengano effettivamente
ed integralmente utilizzati per l’opera che si intende finanziare.
Per ovviare a questo rischio, si potrebbe pensare di ricorrere alla donazione modale, gravando
cioè il donatario di un’obbligazione – nel caso di specie la realizzazione dell’opera – il cui
mancato rispetto determini la risoluzione della donazione.
Il donante in questo caso avrebbe titolo ad agire giudizialmente per costringere l’ente
all’adempimento o ottenere, in mancanza, il risarcimento del danno: non v’è però comunque
possibilità di “incidere” sull’effettiva realizzazione dell’opera ed esercitare una funzione di
controllo.
Altra possibile (e più sofisticata) strada da percorrere sarebbe quella della costituzione di una
fondazione ad hoc, ma anche questo tipo di soluzione presenta evidenti svantaggi.
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Edizione di mercoledì 21 ottobre 2015
Innanzitutto il controllo pubblicistico, che fa sì che il mecenate, una volta costituita la
fondazione, debba “uscire di scena”, in considerazione della rigida struttura che caratterizza la
fondazione, senza poter indirizzare in modo incisivo la realizzazione dell’opera.
Inoltre, laddove le risorse messe a disposizione si rivelassero eccedenti rispetto alle necessità
dell’opera, il surplus risultante non potrebbe ritornare al mecenate o ai soggetti da questi
indicati, ad esempio i propri discendenti, ma vi dovrebbe essere invece necessariamente la
devoluzione finale del patrimonio della fondazione.
Il trust si presenta indubbiamente soluzione maggiormente efficiente rispetto alle due ipotesi
appena presentate.
Attraverso il ricorso all’istituto, il mecenate-disponente istituirebbe il trust con la finalità di
realizzare quella determinata opera, trasferendo al trustee le risorse necessarie per la sua
concretizzazione e nel contempo informando la sua azione al rispetto delle prescrizioni
contenute nell’atto istitutivo.
Così facendo, il disponente acquisirebbe la certezza che l’ente chiamato ad attuare la stessa
non potrebbe “confondere” le risorse ricevute con il proprio patrimonio. Non solo, l’atto
istitutivo potrebbe prevedere, obbligando in tal senso il trustee, che le dazioni delle successive
tranches di denaro siano condizionate alla verifica circa l’effettivo e soddisfacente procedere
dei lavori.
L’atto potrebbe altresì stabilire, legittimamente, che le risorse stanziate eventualmente
esuberanti rispetto alla realizzazione dell’opera vengano trasferite, al termine della durata del
trust (che dovrebbe coincidere con il completamento dell’opera), ai soggetti indicati nello
stesso atto, ad esempio i figli del disponente.
Il disponente potrebbe egli stesso assumere il ruolo di guardiano per poter esercitare un
ulteriore controllo (mentre sarebbe opportuno che evitasse quello di trustee, attesa la
posizione molto rigida assunta dalla Cassazione sulla legittimità dei trust autodichiarati).
Il trust darebbe garanzie anche all’ente che deve realizzare l’opera e che sarebbe in questo
modo certo di ricevere le risorse stabilite.
L’utilizzo del trust per “finanziare” la realizzazione di opere benefiche o di pubblica utilità, che,
come abbiamo visto, dà garanzie a tutti i soggetti interessati, dovrebbe essere fortemente
agevolato da parte del legislatore: viste le mancanze sempre più evidenti del pubblico in molti
settori fondamentali dal punto di vista sociale, legate alla cronica assenza di risorse, i soggetti
che hanno le disponibilità e la generosità di impegnarsi in opere di questo tipo dovrebbero
essere infatti incentivati.
Purtroppo così non è, almeno a livello fiscale: si pone infatti il problema della tassazione
dell’atto di dotazione.
Se il trust viene qualificato come trust di scopo e si prevede l’applicazione dell’imposta di
successione, donazione e sui vincoli di destinazione nella misura dell’8%, è evidente come vi
sia un forte disincentivo a supportare operazioni di questo tipo.
Purtroppo in quest’ottica si è posta, inopinatamente, la Corte di Cassazione nell’ordinanza 3737
del 24 febbraio 2015.
Il caso esaminato è quello di un trust di scopo, istituito dalla Fondazione Cassa di risparmio di
Perugia assieme ad alcuni enti pubblici con l’obiettivo di riqualificare l’aeroporto di Perugia.
Alla cessazione del trust, l’eventuale patrimonio residuo sarebbe stato devoluto alla Regione
Umbra o ad altro ente pubblico.
La conclusione raggiunta dalla Suprema Corte è stata quella dell’applicazione dell’imposta
sulla costituzione del vincolo di destinazione nella misura dell’8%.
A me sembra che l’applicazione di un’imposizione così rilevante, nel momento in cui un privato
destina proprie risorse alla realizzazione di una finalità di interesse pubblico, sia l’evidente
sintomo di un sistema totalmente irrazionale, che andrebbe conseguentemente ripensato.
Fonte: www.ecnews.it