Verifica iscrizione al Vies: come comportarsi

Alberto Di Vita - 18 settembre 2015
La mancata verifica VIES, secondo l'Agenzia, non consente di applicare le regole B2B agli scambi tra soggetti comunitari.

 Ma questa posizione non è condivisibile. Una semplice regola delle operazioni IVA comunitarie ci dice che il regime IVA dipende (anche) dallo status delle parti, cioè dalla natura, o meno, di operatori economici. Per praticità gli operatori sono censiti in un'anagrafe che tutti conosciamo come VIES. Ma alcuni Paesi - e tra questi l'Italia – ritengono che l'iscrizione al VIES abbia una rilevanza sostanziale. Così la nostra Agenzia - sia pur limitatamente alla posizione della parte domestica - dà rilevanza assoluta all'iscrizione Vies per l'applicazione delle regole B2B (circolari 39/E/2011 e 42/E/2012). Le norme comunitarie (articolo 18 del Regolamento di esecuzione (UE) del Consiglio, n. 282/2011 del 15.03.2011) prevedono che lo status di soggetto passivo debba essere verificato, dal prestatore, controllando che il numero di identificazione Iva comunicatogli dal committente risulti valido. In sostanza, adempiuta questa formalità, nulla potrebbe essere contestato alla controparte, salvo casi di frode. La verifica VIES protegge la controparte diligente, ma non sembra che ciò implichi anche il contrario, e cioè che in mancanza di riscontro VIES su una delle parti questa debba perdere lo status di operatore economico. Il Regolamento, peraltro, aggiunge che, nelle more dell'attribuzione del numero di identificazione da parte del committente, il prestatore può comunque considerarlo soggetto passivo destinatario di prestazioni fuori campo Iva ex art. 7-ter utilizzando qualsiasi altra prova applicando le normali procedure di sicurezza commerciali, quali quelle relative ai controlli di identità o di pagamento. L'Agenzia delle Entrate non ignora questa disposizione, ma ritiene che essa si applichi solo per i Paesi che non rilasciano immediatamente il numero identificativo, e quindi mai nel caso di contribuenti italiani. La rigida posizione assunta dall'Agenzia cozza, però, con la giurisprudenza comunitaria (sentenza Mecsek-Gabona, 6.09.2012, C-273/11) che riconosce valida la buona fede e la diligenza del cedente qualora l'acquirente cessi retroattivamente la partita Iva, o la cambi. In sostanza la partita IVA non dovrebbe essere controllata ad ogni operazione ma solo all'inizio del rapporto. Casi del genere si verificano perché i Paesi membri, ed ora anche l'Italia, procedono, generalmente, ad approfonditi controlli successivamente all'inizio dell'attività. Anche la giurisprudenza di merito nazionale ha recepito le indicazioni ritenendo non necessario ripetere il controllo della partita IVA se il rapporto è continuativo e che non è necessario che la partita IVA sia disponibile, essendo sufficiente che il cessionario estero documenti di aver avviato l'iter per ottenere la partita Iva. Vi sono, inoltre, casi in cui si può giustificare la non applicazione dell'IVA anche se il cessionario è privo di un numero identificativo Iva. Si tratta di una facoltà da utilizzare con prudenza e che richiede la dimostrazione della propria buona fede e diligenza, ad esempio attraverso l'acquisizione di una dichiarazione riferibile alla controparte o, meglio, di documentazione attestante l'effettivo svolgimento di un'attività rilevante ai fini IVA (dichiarazioni fiscali, modelli Intrastat, ecc.). Insomma, i casi sono tanti e sarebbe ora che l'Agenzia ripensasse un orientamento che contribuisce a tenere lontani gli investitori esteri.

 Fonte: Sistema Ratio - Centro Studi Castelli 

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