Sabato 07 Novembre 2015 di Davide De Giorgi
Il c.d. transfer pricing è un fenomeno consistente nella determinazione e nell’attuazione delle
diverse politiche sui prezzi praticato in ambito internazionale,
mediante transazioni
infragruppo che devono essere tendenzialmente allineate, fiscalmente, al c.d. valore normale.
Talune volte, a causa di una non coerente politica di prezzo, si verifica l’effetto dello
spostamento dell’imponibile dell’impresa residente presso le imprese associate estere che, nei
rispettivi territori, godono di esenzioni fiscali e/o subiscono minore tassazione.
A tal fine, il Legislatore nazionale ha previsto l’applicazione di particolari norme che tendono
a contrastare non l’occultamento del corrispettivo (evasione), ma le manovre che incidono sul
corrispettivo palese (elusione), consentendo il trasferimento surrettizio di utili da uno Stato
all’altro, sì da influire in concreto sul regime dell’imposizione fiscale.
Il criterio cardine per la valutazione della coerenza dei prezzi di trasferimento tra le imprese
associate di un gruppo multinazionale è costituito dal principio di libera concorrenza, che si
instaura tra imprese indipendenti, e che sotto il profilo fiscale è correlato alla definizione del
“valore normale” dei beni o dei servizi.
Invero, la mancanza di una effettiva alterità tra le imprese partecipanti a simili transazioni
comporta un’elevata probabilità che il corrispettivo venga fissato dalle parti non
conformemente all’effettivo valore del bene scambiato o del servizio reso, ma
strumentalmente alla pianificazione fiscale del gruppo cui le imprese contraenti appartengono.
In ultima analisi, si stabilisce l’irrilevanza, ai fini fiscali, dei valori concordati dalle parti
nell’ambito di transazioni controllate e l’inserimento automatico nelle transazioni medesime
di valori legali, ancorati al regime della libera concorrenza; con la conseguenza che, in simili
vicende, non rileva il corrispettivo effettivamente convenuto, bensì quello che sarebbe stato
stabilito ove le imprese fossero state indipendenti l’una dall’altra, secondo il c.d. arm’s lenght
principle.
In questo scenario si inserisce la sentenza n. 2725 del 18 giugno 2015 della C.T.R. di Milano.
Tra gli altri rilievi, i verificatori contestano al contribuente la misura di deducibilità degli
interessi passivi relativi al contratto di finanziamento (finanziamento infragruppo e, quindi
assoggettabile alla disciplina del c.d. transfer pricing - art. 110, comma 7 del TUIR).
A detta dei verificatori “(…) il tasso di interesse applicato (pari al 9%) era da considerare
eccessivo, considerato che il “valore normale” era pari al 7,078%. I verificatori proponevano
pertanto la ripresa a tassazione della differenza tra gli interessi dedotti (calcolati al tasso del
9%) e gli interessi “normali” (calcolati al tasso stimato dall’ufficio, pari al 7,078%)”.
Il contribuente chiariva che tale approccio si paventava contrario all’orientamento della
giurisprudenza di legittimità e alle indicazioni fomite dal Ministero delle finanze. Al riguardo
sottolineava infatti che qualora la rettifica fosse fondata sul c.d. transfer pricing, l’Ufficio
doveva effettuare una comparazione tra l’operazione posta in essere dal contribuente e altre
similari per verificare se vi era differenza di prezzo e non limitarsi, ex adverso, come accaduto
nel caso di specie, ad esprimere delle mere “opinioni” sulla congruità dei prezzi praticati.
Evidenziava inoltre che l’operato dell’Ufficio era contrario anche alle indicazioni fornite
dall’OCSE nelle “TP guidelines” (istruzioni al transfer pricing); al riguardo sottolineava infatti
che se, come nel caso de quo, il prezzo o il margine della transazione era compreso
nell’intervallo determinato con il criterio del c.d. arm’s lenght (criterio della libera
concorrenza), la rettifica non avrebbe dovuto essere effettuata.
A tutela delle proprie ragioni il contribuente produce uno Studio, c.d. di benchmarking, dal
quale si evince che il tasso di interesse applicato alla transazione era “confidente” al valore di
mercato applicato a transazioni similari, in quanto il tasso era collocato, appunto, all’interno
del range di valori statistici così come suggerito in sede OCSE.
All’analisi strutturata sulla base dei crismi internazionali, l’Ufficio replicava con un mero
confronto del tasso di interesse praticato infragruppo con il tasso di interesse normale
desumibile da dati oggettivi, ossia dai bollettini ufficiali della BundesBank tedesca.
I Giudici di seconde cure ritengono non legittimo il rilievo “perché l’ufficio, in violazione
dell’art. 110, comma 7 del decreto presidenziale sopra citato, non ha effettuato alcuna
comparazione con “transazioni similari”, ma si è limitato ad esprimere una “opinione” in
relazione al tasso di interesse applicato, in aperto contrasto con quanto statuito dalla
giurisprudenza di legittimità (Cass, civ., sez. trib., 23 ottobre 2013, n. 24005; Cass. civ. trib., 25
settembre 2013, n. 22010). Secondo l’art. 9, comma 3, D.P.R. n. 917 del 1986, per “valore
normale” si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per beni e servizi della
stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di
commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquistati o
prestati, e in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi”.
Viene ribadito che “La ripresa a tassazione fondata sul transfer pricing, quindi, presuppone che
l’ufficio effettui una comparazione tra il corrispettivo pattuito infra-gruppo e il corrispettivo
praticato da imprese terze ed indipendenti. Lo stesso art. 9, comma 3, infatti non consente
all’amministrazione finanziaria di “stimare” il valore normale di un bene o di un servizio, ma
solo di desumerlo effettuando una comparazione con il prezzo o corrispettivo mediamente
praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari. È quindi sull’amministrazione
finanziaria che incombe l’onere di provare, sulla base di una propria istruttoria, che l’avviso di
accertamento si basa sulla asserita differenza tra i corrispettivi oggetto di verifica e i
corrispettivi, relativi a beni o servizi similari, pattuiti fra imprese indipendenti”.
fonte: www.ecnews.it