Sabato 07 Novembre 2015 di Luca Vannoni
I recenti interventi in materia di licenziamento, la Legge Fornero (L. 92/2012)
e il c.d. contratto
a tutele crescenti (D.Lgs. 23/2015), hanno ridotto le possibilità di reintegrazione del
dipendente illegittimamente licenziato. I primi esiti giurisprudenziali, in riferimento in
particolare all’articolo 18, come modificato dalla Legge Fornero (L. 92/2012) e come dimostra
la recente Corte di Cassazione, n. 20540/2015, sembrano tuttavia preservare il ruolo centrale
della reintegra, tutt’altro che residuale.
È necessario premettere come nel nostro ordinamento esistano tre principali sistemi di tutela
in caso di licenziamento illegittimo:
1) La tutela obbligatoria, per i lavoratori di imprese fino a 15 dipendenti assunti prima del
7 marzo 2015;
2) La tutela ex articolo 18 L. 300/1970, per i lavoratori di imprese oltre i 15 dipendenti
assunti prima del 7 marzo 2015;
3) Le tutele crescenti, previste per i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, a
prescindere dalle dimensioni dell’organico aziendale, e per i lavoratori assunti prima del
7 marzo 2015 da imprese che superano la soglia dei 15 dipendenti con assunzioni
successive al 7 marzo 2015.
Nel regime soggetto all’applicazione dell’articolo 18, tra i residui casi di reintegrazione è
inclusa l’ipotesi in cui il lavoratore sia stato licenziato illegittimamente per motivi disciplinari,
se emerge l’”insussistenza del fatto contestato”. Tale espressione è stata oggetto di un intenso
dibattito dottrinale sull’esatta interpretazione, condensatosi su due posizioni:
1) La teoria del fatto giuridico, dove l’insussistenza che dà luogo alla reintegra è intesa non
solo in riferimento all’inesistenza del fatto nei suoi profili materiali, ma anche quando,
pur in presenza di un fatto storicamente avvenuto, non integra giuridicamente
l’inadempimento contestato;
2) La teoria del fatto materiale, dove viceversa l’insussistenza è limitata solo a profili
materiali, così da applicare la reintegra solo in caso di inesistenza stretta del fatto.
Proprio su tali aspetti è intervenuta la recente sentenza della Corte di Cassazione, n.
20540/2015. Il caso riguarda il licenziamento di una lavoratrice, determinato dalle lamentele
nei confronti dell’amministratore delegato, definito “paranoico” e “privo di legame con la
realtà”, a cui erano seguiti fatti dimostratisi disciplinarmente irrilevanti, come la pretesa di
discutere direttamente con l’amministratore delegato e la diffusione di notizie relative allo
stesso che le erano state espressamente comunicate, e non acquisite mediante accessi non
autorizzati alle informazioni aziendali.
Innanzitutto la Corte di Cassazione conferma l’illegittimità del licenziamento stabilità dalla
Corte di Appello di Milano, in quanto fondato da fatti insussistenti o privi di rilievo giuridico.
Nel fissare le conseguenze dell’illegittimità, essendo applicabile ratione temporis il nuovo
articolo 18, la Corte di Cassazione ritiene applicabile la reintegrazione, in quanto
nell’insussistenza del fatto contestato rientrano anche fatti sussistenti ma privi del carattere
di illiceità e non suscettibili di alcuna sanzione: la completa irrilevanza giuridica del fatto
equivale alla sua insussistenza materiale ed ha come conseguenza la reintegrazione.
La Corte di Cassazione sposa quindi la teoria del fatto giuridico, ribaltando apparentemente gli
esiti di una precedente pronuncia (n. 23669/2014), dove veniva affermata la tesi del fatto
materiale. Ma attenzione: anche in quest’ultima sentenza il licenziamento illegittimo era stato
sanzionato con la reintegra e, analizzandone il contenuto, il principio affermato non sembra
poi discostarsi dalla sentenza in commento.
Se il fatto, esistente, è giuridicamente irrilevante, allora spetta la reintegra; se il licenziamento
è illegittimo in ordine alla proporzionalità, giudicata eccessiva rispetto all’inadempimento, il
lavoratore avrà diritto alla sola tutela risarcitoria. Ad ogni modo, è bene prestare attenzione,
ove applicabile l’articolo 18, anche alle disposizioni della contrattazione collettiva: se il difetto
di congruità è supportato dall’espressa previsione nel codice disciplinare di una sanzione
conservativa, come la multa o la sospensione, per il comportamento che ha determinato il
licenziamento, anche in questo caso la reintegra.
Con tutta probabilità, la Corte di Cassazione utilizzerà gli stessi principi anche in riferimento
alla nuova disciplina a tutele crescenti del D.Lgs. 23/2015: pur essendo stato specificato, a
superamento dei dubbi dottrinali, che l’insussistenza che dà diritto alla reintegra –
esclusivamente per il lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 – è quella materiale, in essa potranno
trovare approdo tutte quelle situazioni che saranno considerate irrilevanti disciplinarmente. Si
evidenzia, ad ogni modo, che il D.Lgs. 23/2015 si distingue dall’articolo 18 per un aspetto
molto importante: non è più prevista la reintegra per il difetto di congruità aggravato dalla
previsione della sanzione conservativa da parte della contrattazione collettiva.
Se, infatti, di facciata potrebbe sembrarsi quanto mai dovuta la reintegrazione per forzature
eccessive delle regole disciplinari, vero è che spesso le categorie e i concetti utilizzati dalla
contrattazione collettiva sono dal carattere sibillino e indefiniti: nell’ottica di una maggior
certezza del diritto è da valutarsi in modo estremamente positivo la non riprosizione di tale
disposizione nelle tutele crescenti. Rimane, comunque, eccessivamente complicato il quadro
di fondo, con regole distinte a seconda della data di assunzione, che possono determinare la
situazione paradossale di conseguenze diverse in caso di licenziamenti basati sui medesimi
fatti.
fonte: www.ecnews.it