Venerdì 29 aprile 2016
Quando si spedisce una raccomandata (o quando la si riceve) la prova legale della sua consegna è data dall’avviso di ricevimento (alcuni, impropriamente, la chiamano “ricevuta di ritorno”); questo talloncino, però, indica solo la data e il soggetto che ha firmato, al momento della ricezione dell’atto, sul registro del postino, ma non specifica “cosa” materialmente la busta contenesse né se, al suo interno, vi fossero effettivamente tutti i fogli necessari per comprendere il significato della comunicazione. Insomma, la raccomandata a.r. dà la certezza della effettiva spedizione della missiva, ma non del suo contenuto.
Questo perché, quando viene inviata una lettera, si suole inserirla semplicemente in una busta. Ma che succederebbe se il mittente, dolosamente, affrancasse una busta vuota allo scopo di non informare il destinatario di quanto ha intenzione di fare, procurandosi, però, con l’avviso di ricevimento, la prova dell’effettiva spedizione? Che succederebbe se il mittente inviasse con raccomandata una cartolina di auguri per Natale e, però, affermasse che all’interno vi era una diffida di pagamento?
O, dall’altro lato, volendo pensare alla malafede del destinatario, che succederebbe se fosse quest’ultimo a strappare uno o più fogli della lettera per poi sostenere che la busta, al suo interno, era vuota?
Insomma, in parole povere, il problema è questo: prevale la parola del mittente o quella del destinatario?
Secondo i giudici, sussiste una presunzione di corrispondenza tra la raccomandata effettivamente ricevuta dal destinatario e la copia che il mittente esibisce, asserendo di aver spedito (per esempio, davanti al giudice o alla stessa controparte) [La lettera raccomandata costituisce prova certa della trasmissione del plico spedito, attestata dall’ufficio postale attraverso la ricevuta, da cui consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale, di arrivo al destinatario dell’atto comprendente la busta ed il suo contenuto, e dunque di conoscenza del medesimo ex art. 1335 cod. civ. (Cass. sent. n. 23920 del 22.10.2013)]. Dunque, basta conservare una copia della lettera (eventualmente anche nell’archivio del proprio computer, se scritta su word) non necessariamente con la firma autentica dell’autore, per poter asserire che quello, e solo quello, è il contenuto della busta.
Ma che succede se il destinatario contesta tale affermazione? Quali sono le conseguenze se colui a cui la lettera è stata inviata dichiara che il contenuto della busta era un altro o addirittura che la busta era vuota o che, al suo interno, mancavano alcuni fogli?
Sul punto, la giurisprudenza è stata per anni divisa.
Secondo alcune sentenze spetterebbe sempre al destinatario la prova di avere ricevuto una missiva di contenuto diverso o un plico privo di contenuto [Cass. sent. n. 10630/2015. Cfr. anche sent. n. 15762/2013; n. 23920/2013; n. 20167/2014]. Di parere contrario altri giudici [Cass. sent. n. 9533/2015.].
La questione è stata posta soprattutto con riferimento alle cartelle di pagamento di Equitalia. A riguardo, la cartella è nulla se non rispetta il modello e il contenuto stabilito dal decreto ministeriale. Pertanto, mancando anche un semplice foglio, il contribuente sarebbe libero dalla pretesa fiscale. E non c’è bisogno di suggerire al lettore quali pensieri ha fatto sorgere tale affermazione in molti morosi. Nonostante, però, le possibili frodi, la Cassazione in passato ha detto che spetta al mittente dimostrare il contenuto della raccomandata e a questa regola non può sottrarsi Equitalia quando ha inviato la cartella di pagamento per posta e il contribuente contesta di averla ricevuta. È onere del mittente (Equitalia) – si legge in alcuni passaggi della Cassazione [Cass. sent. n. 2625/2015.] – fornire la dimostrazione dell’esatto contenuto della raccomandata. In mancanza di tale dimostrazione, la prova dell’avvenuta notifica della cartella viene meno e quindi la notifica stessa è nulla. In sintesi, le notifiche da parte della società di riscossione sono legittime, ma cadono se, in giudizio, il contribuente si limita ad affermare che il contenuto del plico è diverso da quello che Equitalia sostiene che sia e se quest’ultima non dà prova contraria ossia dell’effettivo contenuto della raccomandata. Una prova praticamente impossibile da raggiungere.
Quest’ultima tesi è stata capovolta quest’anno dalla stessa Cassazione [Cass. sent. n. 5397/2016.]. Ora la Corte ritiene che la prova del ricevimento di una raccomandata (con l’avviso di ricevimento) comporti sì, sempre, la presunzione di conoscenza del suo contenuto, ma spetta al destinatario della stessa dimostrare che la busta era vuota o aveva un contenuto diverso. Dunque è quest’ultimo che, se vuol contestare l’effettivo contenuto della raccomandata, deve dare prova di ciò che dice. Cosa tutt’altro che facile…
Per evitare possibili contestazioni, in ogni caso, la legge ammette la spedizione della raccomandata senza busta, ossia con un plico piegato su sé stesso, su cui poi viene indicato l’indirizzo e il francobollo (abbiamo spiegato come farlo nella guida sulle raccomandate senza buste). In tal caso, poiché la lettera costituisce un “unico” corpo con la busta non ci sarà possibilità di alterazioni. Bisogna però sempre ricordarsi di spillare bene i fogli e imprimervi un timbro di congiunzione per evitare che uno di essi venga sottratto.
Un altro modo per superare eventuali contestazioni sul contenuto della raccomandata è quello di spedire tutto tramite Pec, posta elettronica certificata.
FONTE:www.laleggepertutti.it