Martedì 01 marzo 2016
Anche se il dipendente firma per ricevuta la busta paga può sempre dimostrare di non aver ricevuto la somma ivi indicata: la sua sottoscrizione, dunque, non salva il datore di lavoro da una successiva richiesta di differenze retributive. Lo ha chiarito il Tribunale di Bari con una recente sentenza n. 2305 dell’8.04.2016..
Il giudice ricorda innanzitutto che, secondo la Cassazione [cass. sent. n. 4512/92; Cass. sent. n. 1150/94.], spetta al datore di lavoro dimostrare di aver pagato il dipendente: prova che deve essere fornita attraverso la documentazione prodotta agli atti, nel giudizio instaurato dal dipendente per ottenere le paghe non corrisposte. La semplice consegna del prospetto paga ai lavoratori non è sufficiente per dimostrare l’avvenuto adempimento. Né è sufficiente la firma “per ricevuta”, apposta dal lavoratore medesimo sul cedolino: essa, infatti, non implica, in maniera univoca, l’effettivo pagamento della somma indicata nel medesimo documento, non integrando detta dizione un’espressione tale da giustificare la sola interpretazione letterale.
FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con ricorso depositato il 13.4.04 e ritualmente notificato, I.B. ha citato in giudizio la P. S.r.l., esercente attività di commercio al dettaglio di articoli di abbigliamento e prodotti tessili, esponendo:
a) di aver lavorato alle sue dipendenze come commessa a far data dal 1.5.1998 al 20.5.2002, data del licenziamento, sotto la vigilanza e le direttive di P.D., svolgendo in particolare mansioni di assistenza alla clientela e operazioni ausiliarie alla vendita, tra cui incasso e registrazione di cassa, osservando il seguente orario di lavoro: dal lunedì al sabato dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 16.30 alle 20.30 ad eccezione del giovedì, in cui lavorava solo la mattina, e questo tanto presso la sede sociale in Acquaviva delle Fonti, alla Via (…), quanto presso il negozio gestito dalla D., sempre in Acquaviva delle Fonti, alla Via (…);
b) di essere stata regolarizzata solo con decorrenza 2.9.1998, come da busta paga;
c) di aver percepito per l’intero periodo solo gli importi indicati in ricorso e nulla ha ricevuto a titolo di straordinario, 13A e 14 anno 1998, TFR e indennità ex contractu, come indicato nei conteggi prodotti;
d) che la società era solita far sottoscrivere talune buste paga alla ricorrente, consegnandole all’atto del pagamento un assegno dell’importo indicato, ma contestualmente esigendo la restituzione di Lire 300.000 mensili, in modo da corrisponderle un importo inferiore e precisamente gli importi indicati in ricorso;
e) che in data 10.5.2002 la società le versava la somma di Euro 3.384,85 a titolo di retribuzione non percepita, contestualmente stornando il debito della lavoratrice per merce acquistata e non pagata presso la boutique “P.” per l’importo di Euro 1.461,57, in realtà mai contratto dalla ricorrente. Pertanto, ha concluso chiedendo l’accertamento della natura subordinata del rapporto intercorso tra le parti, per il periodo e con l’orario indicati, nonché l’inquadramento della lavoratrice sin dalla data di costituzione del rapporto e per l’intero arco lavorativo nel V livello del ccnl settore commercio, con condanna della società convenuta al pagamento di Euro 30.244,49 per i titoli indicati in ricorso, oltre interessi e rivalutazione monetaria e regolarizzazione contributiva per il periodo di lavoro intercorso; con vittoria di spese, da distrarsi. La convenuta si è costituita contestando la fondatezza della domanda, quanto in particolare alla data di decorrenza del rapporto, affermando che la ricorrente è stata assunta il 2.9.1998 e ha lavorato esclusivamente per le ore e i giorni indicati in busta paga; ha contestato che la ricorrente fosse addetta alla presentazione dei capi di abbigliamento, all’assistenza alla clientela o agli incassi e registrazioni di cassa, limitandosi solo a riposizionare i capi negli appositi scomparti; ha affermato di aver corrisposto alla lavoratrice tutte le somme risultanti dalle buste paga, che risultano tutte controfirmate; ha dedotto che il debito contratto dalla ricorrente per acquisto di merce risulta da apposita scheda tenuta presso l’esercizio commerciale. Ha concluso quindi per il rigetto del ricorso; con vittoria di spese da distrarsi. Escussi i testi indicati e disposto ai sensi dell’art. 423 c.p.c. il pagamento dell’importo di Euro 1.461,57 in favore della B., all’odierna udienza la causa è stata discussa e decisa, come da sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 429, comma 2, c.p.c., di cui si è data pubblica lettura, depositata in via telematica. La domanda è parzialmente fondata e deve essere accolta nei limiti indicati. Oggetto della pretesa attorea è l’accertamento, da un lato, del rapporto di lavoro per il periodo non regolarizzato (dal 1.5.1998 al 2.9.1998, data della formale assunzione), nonché del diritto all’inquadramento ab initio nel V livello, secondo quanto previsto dal CCNL indicato, e delle differenze retributive maturate. Presupposto della domanda è, quindi, l’esistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata con la società resistente, per il periodo precedente la regolare assunzione e con decorrenza dal maggio 1998. In generale, com’è noto, requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato – ai fini della sua distinzione dal rapporto di lavoro autonomo – è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale si esplica, fra l’altro, nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e di controllo sull’esecuzione delle prestazioni lavorative. Ciò premesso, nel caso di specie, ritiene il Giudice che dall’istruttoria svolta non siano emersi elementi sufficienti per ritenere che nel periodo controverso sia intercorso tra le parti un rapporto di lavoro. A fronte della specifica contestazione da parte della convenuta e di mancanza di prova documentale (contratto di lavoro, buste paga), gli esiti della prova orale assunta appaiono generici e contraddittori, ovvero non idonei a sorreggere l’assunto del ricorrente. In particolare, la teste B.M. si è limitata ad affermare genericamente “abbiamo lavorato insieme dal 1998”, senza offrire elementi per ritenere che la decorrenza del rapporto sia collocabile nel mese di maggio. La teste di parte resistente, A.Z., a diretta conoscenza dei fatti, in quanto collega di lavoro della ricorrente, ha invece confermato che la B. ha iniziato a lavorare dal settembre 1998. L’unica teste di parte ricorrente che ha riferito diversamente, A.M. – si è limitata ad affermare: “sicuramente trattasi di maggio 1998” – senza tuttavia offrire specifici elementi idonei a circostanziare tale generica affermazione; inoltre la stessa teste non risulta a diretta conoscenza del rapporto di lavoro della ricorrente e fonda la propria conoscenza dei fatti sulla mera circostanza di aver accompagnato qualche volta la ricorrente a lavoro, essendo sua vicina di casa, e di essersi intrattenuta a volte all’interno del negozio. Le risultanze istruttorie appaiono, dunque, contraddittorie e non univoche, onde ritenere provata la decorrenza del rapporto per il periodo antecedente la formale assunzione. Pertanto la relativa domanda va rigettata e, conseguentemente, rimangono assorbite le domande volte al riconoscimento dei differenti livelli di inquadramento e del relativo trattamento economico e normativo, quanto al suddetto periodo. In relazione invece al periodo lavorativo non contestato, e comunque documentalmente provato (2.9.1998/20.5.2002), parte ricorrente ha dedotto di aver svolto mansioni di “commessa”, con inquadramento nel V livello del contratto collettivo di categoria, cui appartengono espressamente i lavoratori con mansioni di “aiutante commesso” e/o “addetto alle operazioni ausiliarie alle vendita”. Ebbene, tale inquadramento emerge dalle stesse buste paga a partire dal settembre 2000; né è contestato dalla convenuta che la B. svolgesse mansioni di aiuto commessa. Quanto invece al preteso svolgimento da parte della ricorrente di operazioni di vendita, assistenza alla clientela e maneggio danaro, oggetto di contestazione da parte della convenuta, si osserva che tali attività rientrano nelle mansioni della “commessa”, contrattualmente inquadrata nel superiore IV livello contrattuale. Sul punto questo giudice ritiene che, sulla base dell’istruttoria espletata, non possa ritenersi provato che la ricorrente abbia mai svolto le dedotte funzioni di cassa o altre operazioni complementari alla vendita. Al riguardo giova ricordare che, per giurisprudenza costante, nella materia in oggetto, deve essere provata la prevalenza qualitativa e quantitativa delle superiori mansioni rispetto a quelle proprie del livello di inquadramento, attribuendosi decisivo valore alle mansioni c.d. (“caratterizzanti”, e cioè a quelle più specifiche sul piano professionale” purché non sporadiche o occasionali (così ad es. Cass. n. 8529/2006 e Cass. n. 2537/2000). Occorre, inoltre, verificare che l’assegnazione alle mansioni superiori sia stata piena con l’assunzione della integrale responsabilità propria della qualifica rivendicata. Nel caso di specie, le risultanze istruttorie inducono a ritenere che l’istante non abbia fornito alcuna prova di aver svolto mansioni superiori con il prescritto carattere della prevalenza. In effetti, i testi di parte resistente hanno riferito che la ricorrente si limitava a ripiegare la merce e a riporla sulle mensole degli scaffali. Al riguardo, la teste Z., collega della lavoratrice, ha dichiarato che “la ricorrente mi aiutava a piegare la roba e a rimettere negli scaffali e negli armadi la merce che veniva mostrata alla clientela”. Anche la teste F. ha affermato: “non ho mai visto la sig.ra B. maneggiare denaro o servire clienti, in quanto tutte le volte in cui mi sono recata presso la boutique … sono stata sempre servita o dalla titolare … o dalla Z.”. Quanto ai testi di parte ricorrente, le dichiarazioni rese al riguardo non consentono di ritenere provato lo svolgimento delle superiori mansioni con i prescritti caratteri della prevalenza, in quanto entrambi i testi non risultano a conoscenza diretta dei fatti di causa. In particolare, la teste B.M., la cui attendibilità deve essere valutata con maggiore rigore, avendo la stessa dichiarato di avere una controversia pendente con la sig.ra P.D. per l’attività di collaboratrice domestica prestata in suo favore, non risulta a diretta conoscenza dei fatti, poiché all’epoca lavorava principalmente presso l’abitazione della D., recandosi nella boutique ove lavorava la ricorrente, posizionata al piano sottostante, solo per effettuare le pulizie. La teste peraltro si è limitata a confermare genericamente le circostanze di cui al ricorso, precisando unicamente che “non sempre la titolare era fisicamente presente nel negozio”. Tuttavia la suddetta circostanza non prova che la ricorrente abbia C svolto le mansioni di commessa, caratterizzate da maggiore autonomia rispetto a quelle di aiuto commessa, in quanto risulta provato che in negozio fosse sempre presente anche la Z., con mansioni vere e proprie di commessa, la quale ha infatti dichiarato che la ricorrente si limitava ad aiutarla. Le dichiarazioni rese inoltre della teste M. (“Confermo le posizioni di fatto rubricate sub capi 3 e 4…del ricorso introduttivo … per aver visto personalmente lo svolgimento delle attività lavorative ivi dedotte” cfr. verbale udienza del 13.2.2007) non appaiono del tutto attendibili in quanto la teste, vicina di casa della ricorrente, fonda la propria conoscenza dei fatti sulla circostanza di essersi intrattenuta in negozio con una frequenza non precisa e pertanto, non risulta a conoscenza diretta dell’orario di lavoro dell’istante, avendo solo una parziale conoscenza dei fatti di causa. Ne consegue che la domanda volta al riconoscimento del superiore inquadramento contrattuale deve essere rigettata. Quanto invece alla domanda volta al riconoscimento del V livello in relazione al periodo antecedente al settembre 2000 (a partire dal quale la B. risulta pacificamente inquadrata nel lo stesso V livello), secondo quanto precisato dalla stessa parte ricorrente all’udienza odierna (cfr. verbale udienza 8.4.2015), la domanda deve essere rigettata. Infatti, in relazione al periodo dal settembre 1998 ad agosto 2000, in cui la ricorrente risulta inquadrata nel IV livello come “apprendista commessa”, emerge tuttavia che la retribuzione risultante dalle buste paga è comunque superiore a quanto la ricorrente ritiene “dovuto” in base ai conteggi elaborati in ricorso. Ad esempio, per il mese di agosto 2000, risulta corrisposta la somma netta di Euro 952,00 a fronte dell’importo richiesto e ritenuto dovuto di Euro 586,00. La domanda pertanto non può trovare accoglimento sulla base degli stessi conteggi elaborati da parte ricorrente. Quanto agli importi corrisposti a titolo di retribuzione, la ricorrente eccepisce di aver percepito somme nettamente inferiori a quanto risultante dalle buste paga. Tuttavia, non deve osservarsi che tutte le buste paga risultano sottoscritte per ricevuta dalla ricorrente, la quale invero ha ammesso la circostanza, aggiungendo che, per prassi, a volte, era tenuta a restituire in contanti parte degli importi ricevuti con assegno, in modo da percepire una retribuzione in concreto inferiore, come indicato in ricorso. Ad ogni modo, parte ricorrente non si offre di provare in maniera specifica le pretese restituzioni di denaro contante, limitandosi ad affermare l’esistenza di una “prassi”, la cui prova comunque non può ritenersi raggiunta. Sul punto, l’unica teste a diretta conoscenza della circostanza, B.M., ha dichiarato: “Confermo la circostanza … precisando che diverse volte ho assistito personalmente alla restituzione dell’importo, poiché la Sig.ra B. veniva anche in casa della Sig.ra D.”. Tuttavia le dichiarazioni rese dalla teste non possono ritenersi attendibili. È emerso infatti che all’epoca della deposizione risultava pendente una controversia tra la B. (odierna teste) e la D., titolare della società odierna resistente (cfr. copia del ricorso B. – D. prodotto da parte resistente), e in quella sede la B. dichiarava (contrariamente a quanto affermato nella deposizione) di aver iniziato a svolgere la sua attività lavorativa in favore della D., come collaboratrice domestica, dall’1.2.2003 al 19.11.2003: dunque, in un momento successivo alla risoluzione del rapporto di lavoro dell’odierna ricorrente (20.5.2002). Pertanto, le dichiarazioni rese della teste risultano contraddittorie e quindi devono ritenersi del tutto inattendibili. La circostanza che le buste paga risultano sottoscritte dalla ricorrente e che la stessa abbia accettato tali importi, senza mai rivendicare null’altro a riguardo, è ulteriormente significativa dell’infondatezza della relativa pretesa. Venendo ora a considerare le richieste differenze retributive, si osserva che, la teste Z., a diretta conoscenza dei fatti e della cui attendibilità non v’è motivo di dubitare, ha dichiarato che l’orario di lavoro della B. era dalle 9.30/9.45 alle 13.00/13.15, con la pausa pranzo e dalle 17.00 alle 20.00/20.30. I testi che hanno riferito diversamente non risultano del tutto attendibili (B.M.) o risultano a conoscenza parziale e indiretta dei fatti (M.A.), per le già indicate ragioni. In considerazione del rigore nell’onere probatorio posto a carico del lavoratore nel dimostrare l’eventuale straordinario prestato, tali uniche testimonianze non risultano sufficienti a fondare la pretesa della ricorrente in oggetto. Si osserva infatti che il lavoratore che chieda in via giudiziale il compenso per il lavoro straordinario o festivo ha l’onere di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario contrattualmente previsto ovvero in giorno festivo, senza che l’assenza di tale prova possa esser supplita dalla valutazione equitativa del giudice (cfr. Cass. 9, febbraio 2009, n. 3194; 25 giugno 2006, n. 12434; 29 gennaio 2003, n. 1389; 17 ottobre 2001, n. 12695). È necessario che il lavoratore provi, o in maniera specifica di avere svolto la prestazione lavorativa oltre l’orario ordinario, ovvero di avere osservato in maniera continuativa un determinato orario di lavoro risultante settimanalmente superiore all’orario stabilito dal contratto: peraltro, il giudice può legittimamente valutare gli elementi di prova raccolti, avvalendosi anche di presunzioni semplici, al fine di giungere, in termini sufficientemente concreti e realistici, ad una determinazione “minimale” delle ore prestate in aggiunta all’orario normale (cfr. Cass. 12 maggio 2001, n. 6623). Nella fattispecie in esame, alla luce delle risultanze istruttorie, non si può ritenere raggiunta la prova dello svolgimento di lavoro straordinario e festivo, se non nei limiti di quanto emerge dalle singole buste paga, quietanzate dalla ricorrente. Con riferimento alle ulteriori richieste per differenze retributive, la domanda risulta parzialmente fondata. II datore di lavoro ha dedotto di aver corrisposto tutti i titoli risultanti dalle buste paga, regolarmente sottoscritte dalla ricorrente. Al riguardo, la valutazione integrata del contenuto della documentazione prodotta in giudizio e delle risultanze dell’istruttoria orale espletata in corso di causa consentono di ritenere integrata la prova, gravante sulla società convenuta, dell’effettiva corresponsione, in favore del lavoratore, delle somme indicate nelle buste paga. In proposito, é opportuno prendere le mosse dall’indirizzo espresso dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, in forza del quale l’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 1 della legge 5 gennaio 1953 n. 4 – di consegna del prospetto paga ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione – non attiene alla prova del relativo pagamento, sicché compete al datore di lavoro stesso, il quale non possa provare la corresponsione di quanto dovuto al dipendente a titolo di retribuzione mediante la normale documentazione liberatoria data dalle regolamentari buste paga recanti la firma dell’accipiente, fornire la prova rigorosa dei relativi pagamenti che abbia in effetti eseguito in relazione ai singoli crediti vantati dal lavoratore e della cui sussistenza sia stata acquisita la dimostrazione (cfr. Cass. Sez. Lav., Sent. n. 4512/92; Cass. Sez. Lav., Sent. n. 1150/94). In forza di un più recente indirizzo, la sottoscrizione “per ricevuta”, apposta dal lavoratore sulla busta paga non implica, in maniera univoca, l’effettivo pagamento della somma indicata nel medesimo documento, non integrando detta dizione un’espressione tale da giustificare la sola interpretazione letterale, ma un’interpretazione complessiva alla stregua anche degli ulteriori criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c. (cfr. Cass. Sez. Lav., Sent. n. 6267/98). Orbene, dall’applicazione dei citati principi alla presente fattispecie discende, come logico corollario, il parziale accoglimento della domanda attorea, con riferimento alla mensilità di maggio 2002, tredicesima e quattordicesima spettanti per l’anno 2002 e del trattamento di fine rapporto. Infatti, risulta pacificamente che il rapporto si è concluso in data 20.5.2002 ma, per come affermato dalla stessa parte ricorrente (cfr. note C conclusive) la società convenuta si è limitata a produrre in giudizio, quale ultima busta – paga, quella afferente la mensilità di aprile 2002, senza provare l’intervenuto pagamento del trattamento di fine rapporto e dell’ultima mensilità relativa a maggio 2002. Il pagamento effettuato dalla parte datoriale a mezzo raccomandata del 10.5.2002 (doc. 3 resistente) pari all’importo di Euro 3.384,85 non solo risulta privo di titoli cui imputare il complessivo importo, ma comunque è anteriore all’intervenuto licenziamento del 20.5.2002. Pertanto, risultano dovute le seguenti somme, come da conteggi allegati al ricorso: Euro 425,00 per la mensilità di maggio 2002 (1.045,00 – 620,00 già percepite); Euro 870,00 (435,00 x 2) a titolo di tredicesima e quattordicesima mensilità, nonché il trattamento di fine rapporto pari a Euro 3.432,00. Per tali titoli, risulta quindi complessivamente dovuta la somma di Euro 4.727,00 oltre accessori, dalla maturazione al saldo. Infine, deve ritenersi definitivamente infondata l’eccezione di compensazione, proposta dalla parte ricorrente, con conseguente conferma dell’ordinanza del 16.3.2005, emessa ai sensi dell’art. 423, secondo comma, c.p.c., con cui è stato disposto il pagamento in favore della ricorrente della somma di Euro 1.461,57. Risulta infatti documentalmente, in virtù delle stesse buste paga, la spettanza della suddetta somma in favore della parte ricorrente. A fronte di tale prova, parte resistente non ha offerto elementi in senso contrario, attestanti la sussistenza del preteso debito della B. per merce non pagata, dell’importo pari alla somma eccepita in compensazione. Al riguardo, la teste Z. ha dichiarato: “Posso confermare che la ricorrente aveva con la boutique un debito di Euro 1.461,57, Tale debito derivava dall’acquisto da parte della B. di alcuni capi di abbigliamento. Non ricorso precisamente cosa ha comprato ma credo trattatasi di magliette e pantaloni …”. Ebbene, da tali dichiarazioni generiche non può certamente (desumersi l’esistenza del predetto debito; si osserva al riguardo che la Z. collega della ricorrente, proprio in virtù del suo status di dipendente era in grado di conoscere certamente tale circostanza. Tuttavia, le dichiarazioni della stessa teste appaiono del tutto generiche, inidonee e costituire prova della pretesa di parte resistente, la quale ultima non ha neanche offerto specifiche allegazioni al riguardo. Infatti, le prove capitolate sul punto sono risultate generiche, mancando ogni riferimento in ordine alla qualità e quantità di capi di abbigliamento che si assumono acquistati (è infatti generico il riferimento alla “merce acquistata”; né tali elementi risultano specificati nella notula allegata in fascicolo (doc. 4 resistente). Ciò posto, a conferma dell’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 423 c.p.c. in data 16.3.2005, parte resistente deve essere definitivamente condannata al pagamento in favore della ricorrente dell’importo di Euro 1.461,57, ove già non corrisposto in esecuzione della predetta ordinanza, oltre rivalutazione e interessi. In definitiva, quindi, la P. s.r.l deve essere condannata al pagamento in favore di I.B. della somma di Euro 6.188,57 (Euro 4.727,00 + 1.461,57) per i titoli sopra indicati, detratte le somme eventualmente già corrisposte in esecuzione dell’ordinanza ex art. 423, secondo comma, c.p.c. del 16.3.2005. In ragione del parziale accoglimento delle domande, sussistono i presupposti per compensare integralmente le spese processuali.
P.Q.M.
respinta ogni altra domanda, eccezione o deduzione, definitivamente pronunciando, così decide: condanna P. S.r.l. al pagamento in favore di I.B. della somma di Euro 6.188,57, detratte le somme eventualmente già corrisposte in esecuzione dell’ordinanza ex art. 423, secondo comma, c.p.c. del 16.3.2005, oltre accessori, dalla maturazione al saldo; compensa integralmente le spese processuali. Così deciso in Bari l’8 aprile 2015. Depositata in Cancelleria l’8 aprile
FONTE:
www.laleggepertutti.it