di Giovanni Valcarenghi - lunedì 24 agosto 2015
Tutte le opinioni sono rispettabili e, come tali, contribuiscono ad alimentare riflessioni e spunti che dovrebbero apportare miglioramenti al sistema. Quando, però, le riflessioni provengono da soggetti altamente qualificati, sia pure se espresse a titolo personale, vanno vagliate in modo ancor più critico e, se del caso, vanno contrastate in modo esplicito e puntuale, ove si ritenga che possano condurre a conclusioni errate.
Con questo approccio, tornato dalle vacanze, ho letto il contributo del Prof. Santoro, consigliere economico del Presidente del Consiglio dei Ministri, in tema di possibile rilancio degli studi di settore: lo spunto deriva dalla constatazione di una assenza, nella legge delega fiscale, di interventi sullo strumento, unitamente all’auspicio di una loro rivitalizzazione da inserire nella Legge di Stabilità.
Mi pare doveroso premettere che condivido poco o nulla di quanto affermato, pur riscontrando che poi finisco per condividere alcune proposte di revisione. L’unica questione sulla quale mi sento perfettamente allineato è la considerazione che, in oltre 15 anni di onorato servizio, gli studi di settore hanno determinato un generalizzato aumento dei ricavi e compensi dichiarati. Non si sa, però (e questo è il punto), se tale effetto sia tutto ascrivibile a loro merito, oppure ad un generalizzato cambiamento delle “abitudini fiscali”.
Si parte esaltando il fatto che gli studi sarebbero strumento concordato con le associazioni di categoria; non trovo, in questo, alcuna garanzia di correttezza. Anzi, a prescindere dal soggetto che li abbia ideati, realizzati e tradotti in un software, l’unica certezza è che gli studi sono uno strumento talmente misterioso da risultare impenetrabile. Si abbandoni la filosofia, per una volta, e si legga la nota metodologica di uno studio di settore ad un qualsiasi contribuente, provando a chiedergli se riesce a comprenderne il contenuto. Già questo rappresenta una mortificazione del diritto di difesa, che invece dovrebbe essere tutelato.
Si afferma che gli studi sono liberamente scaricabili dal contribuente che, attraverso il software Ge.ri.co., può conoscere in anticipo - rispetto all’ipotetico accertamento - la soglia di congruità a lui applicabile. Anche questo elemento ha contribuito ad aumentare l’adempimento spontaneo, nel senso che i ricavi stimati dagli studi sono diventati un punto di riferimento ineludibile per ogni contribuente. Qui proprio non ci siamo, e l’occasione è ottima per rammentare a tutti noi l’ennesima beffa che abbiamo subito nel tempo; l’idea costituzionalmente logica che lo strumento utilizzato dovesse essere reso noto nel periodo di imposta di riferimento, ha fatto che sì che vengano pubblicati i decreti di approvazione degli studi entro il 31.12, mentre il software viene reso disponibile a primavera inoltrata, tanto è vero che negli ultimi anni sono sempre state concesse proroghe per il versamento delle imposte, proprio per il ritardo nel rilascio dello strumento (che, peraltro, ed anche questo risulterebbe pazzesco in un paese normale, viene tranquillamente modificato sino ad estate inoltrata). Quindi bisogna avere le idee chiare: di preventivo non vi è nulla, tanto è che le elaborazioni vengono effettuare sulla scorta delle proiezioni delle dichiarazioni fornite nei primi mesi del successivo periodo ed i decreti pubblicati a dicembre a nulla servono (quindi, l’intervento è solamente di facciata).
Si prosegue riscontrando che gli studi di settore non possono, da soli, fondare la motivazione di un accertamento, come correttamente sancito dalla Cassazione, sin dal 2009; infatti sono utilizzati dagli uffici come strumento di selezione del contribuente, molto spesso accertato poi per altre circostanze. Anche tale affermazione risulta parzialmente errata o, per meglio dire, rispondente solo a quanto affermato dall’Agenzia a livello centrale, ma per nulla corrispondente alle abitudini degli uffici periferici. Su questo punto ritengo doveroso fare una battaglia di principio: si selezioni, a caso, una buona quantità di inviti al contraddittorio inviati ai contribuenti negli ultimi 5 anni e si considerino le motivazioni ivi contenute. Si avrà modo di constatare, allora, che è ancor oggi diffusa abitudine convocare il contribuente per la non congruità, unitamente ad altre circostanze del tutto irrilevanti, quali la reiterazione del disallineamento nel tempo, il caso del volume dei ricavi o del reddito, ecc. Quindi, ciò che è vero è che lo studio viene ancora massicciamente utilizzato come strumento di accertamento e, per conseguenza, le modalità con cui viene costruito dovrebbero essere cristalline e inattaccabili; così, invece, non è.
Spiace, allora, leggere che i contribuenti hanno a lungo percepito l’incongruità degli studi come fonte quasi automatica di un accertamento quando, invece, il numero degli accertamenti da studi non ha mai superato i ventimila all’anno - ed è recentemente ulteriormente sceso - ovvero tra il 2 e il 3% del totale dei soggetti incongrui. Forse, i 20 mila soggetti accertati ogni anno (se tanti sono) hanno meno diritti o meno garanzie degli altri? Va anche riscontrato che molti contribuenti nemmeno sanno di avere esposto nella dichiarazione dei redditi un adeguamento agli studi e, per conseguenza, non rientrano nel novero degli accertabili. E, ancora, non viene forse il dubbio che lo studio di settore da elemento propulsivo dei ricavi – compensi fiscalizzati è oggi divenuto un parametro per non fiscalizzare più di quanto chiede Gerico? E, per finire, non è per caso che quei 20.000 soggetti accertati siano quelli che non intendono allinearsi per principio alle richieste (magari) astruse di un software?
Avendo trovato tanti aspetti positivi negli studi, se ne propone comunque un restyling (alternativo all’accantonamento, che io invece preferirei di gran lunga) basato su tre direttrici:
- è necessario distinguere l’incongruità derivante da fragilità economica da quella derivante dalla vera e propria evasione. Su questo sono assolutamente concorde ed, anzi, aggiungo che bisognerebbe distinguere tra l’imprenditore stolto e quello avveduto, cosa che nessun Gerico riuscirà mai a fare (peraltro, i dati sui quali sono costruiti gli studi mediano proprio queste due posizioni, cosicché l’imprenditore avveduto avrà maggior margine di evasione, mentre quello stolto dovrà adeguarsi agli studi);
- bisogna modificare in misura sostanziale la natura endogena degli studi. Oggi gli studi generano risultati che dipendono … dai dati forniti dagli stessi contribuenti …. Questo aumenta le possibilità di manipolazione e costringe a costruire gli studi in modo sempre più complesso, con note metodologiche del tutto incomprensibili …. Bisogna integrare i dati degli studi con quelli provenienti da basi dati esogene …). Anche qui sono perfettamente concorde, con la considerazione che si giunge a dipingere lo strumento prima incensato come una sorta di guazzabuglio autoreferenziale all’evasore (o presunto tale). Lo spunto è giusto e lo condivido ma, vivendo nel mondo reale, mi chiedo: chi fornisce i dati, quando li fornisce e, soprattutto, chi li valida (ma su questo aspetto c’è un aggancio alla terza proposta di modifica);
- … la riforma degli studi va resa coerente con le innovazioni recenti, e in particolare con …la messa a disposizione dell’Agenzia dell’Entrate a favore dei contribuenti di informazioni che li riguardano per spingerli all’adempimento spontaneo, anche sfruttando i tempi allungati per il ravvedimento operoso. Qui sono indifferenti; la famosa compliance funziona solo e soltanto se le informazioni messe a disposizione del contribuente sono oggettive, precise, inconfutabili e logiche. Se i dati rispondessero a tali caratteri, non vi sarebbe bisogno degli studi di settore, in quanto i medesimi legittimerebbero altre forme di accertamento ben più coerenti con uno stato di diritto. In conclusione, verrebbe da dire, che si faccia pure la riforma degli studi di settore che, ricordiamolo, fanno un gran comodo perché coinvolgono anche il settore dell’IVA; tanto, peggio di così difficilmente potrà andare.
Allora, sembrerebbe più logico, nell’ottica di un corretto uso delle risorse pubbliche, evitare di buttare quattrini per mantenere il sistema degli studi di settore (che nessuno ci dice a chiare lettere quanto costa) e dirottare le risorse su altre tipologie di controlli e accertamenti. Bisogna però avere il coraggio di dire che, così facendo, si farà un omaggio alla logica ed al buon senso, anche se – nell’immediato - si perderà quell’introito (oggi certo) derivante dai numerosi adeguamenti quasi automatizzati che vengono effettuati.
Infine, una ultima riflessione andrebbe fatta sui costi del sistema studi: sul versante della pubblica amministrazione ci dovrebbe essere trasparenza (come già detto), così come si dovrebbe anche avere la delicatezza di pesare il costo degli studi sul contribuente. Anche in questo caso, appare abbastanza bizzarro il numero e la qualità delle informazioni richieste che, in una ottica di revisione migliorativa, non può essere trascurata. Deve essere delineato un preciso limite allo sforzo che deve fare il cittadino per soddisfare le richieste della pubblica amministrazione; veniamo dalla recente esperienza del 730 precompilato e ci dirigiamo verso l’invio delle informazioni relative alle spese sanitarie. Questo aspetto non può non rappresentare, tra persone serie, argomento di meditazione e riflessione.
Fonte: euroconferencenews.it