lunedì 5 ottobre 2015 di Guido Martinelli e Marta Saccaro
Sulla possibilità, da parte delle associazioni, di gestire un bar interno si è spesso detto tanto e,
a volte, anche troppo, al punto che ci siamo resi conto della necessità di riprendere in mano la
questione per sintetizzarla in alcuni concetti chiave.
In primo luogo, dobbiamo capire cosa
intendiamo quando ci riferiamo al “bar” dei circoli. Quello che infatti gli enti associativi
possono gestire è, caso mai, un “posto di ristoro”, cioè un’attività che faccia da sostegno a
quella istituzionale e principale. Così, ad esempio, si comprende come il socio che ha svolto
un’intensa attività fisica presso i locali del circolo possa avere la necessità di ristorarsi con una
bevanda fresca e un panino. Questo è il concetto “chiave” che consente di interpretare ogni
situazione, per definire se si tratti di un’attività commerciale o meno, e che è stato poi tradotto
nel testo normativo. Il legislatore pensava infatti a situazioni analoghe a quella sopra descritta
quando ha introdotto nell’attuale articolo 148 Tuir la disposizione (comma 5) in base alla quale
“non si considerano commerciali, anche se effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici,
la somministrazione di alimenti e bevande effettuata, presso le sedi in cui viene svolta l’attività
istituzionale, da bar ed esercizi similari, […] sempreché le predette attività siano strettamente
complementari a quelle svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali e siano effettuate
nei confronti” dei soci e soggetti equiparati. Per dovere di cronaca si ricorda che una
disposizione analoga a quella contenuta nel Tuir è presente anche nel Decreto Iva (articolo 4,
sesto comma, D.P.R. 633/1972).
Elementi necessari per poter considerare non commerciale questa attività sono, quindi:
1) il fatto che si tratti di “somministrazione” di alimenti e bevande, che è cosa ben diversa
dalla ristorazione (che presuppone la trasformazione e manipolazione di prodotti
elementari in pietanze);
2) l’attività deve essere svolta presso la sede sociale;
3) l’attività deve essere complementare alle finalità istituzionali;
4) l’attività deve essere rivolta ai soci.
Se queste condizioni vengono rispettate, la somministrazione non è commerciale, anche se
effettuata dietro pagamento di un corrispettivo specifico (e va da sé che in caso contrario
l’attività comporta la necessità di aprire la partita Iva).
Attenzione, però: l’agevolazione è riservata ad una specifica platea di soggetti. Si tratta, nello
specifico, delle associazioni di promozione sociale comprese tra gli enti di cui all’articolo 3,
comma 6, lettera e), L. 287/1991, le cui finalità assistenziali sono riconosciute dal Ministero
dell’interno. Facciamo riferimento, pertanto, agli enti di carattere nazionale (sono circa 200
soggetti il cui elenco è riportato nel sito internet del Ministero del lavoro) ma anche a tutte le
associazioni locali che risultano affiliate a tali enti. Questi soggetti possono beneficiare di una
speciale licenza amministrativa per lo svolgimento dell’attività di somministrazione e sono
tenuti ad una comunicazione al Comune dove svolgono l’attività (la materia è stata regolata,
da ultimo, con il D.P.R. 235/2001).
Anche sotto il profilo amministrativo, però, la licenza è subordinata al rispetto di determinati
vincoli. Nello specifico, l’attività deve essere rivolta e riservata esclusivamente agli associati e
gestita direttamente. Riassumendo, quindi, il bar riservato ai soci di un’associazione affiliata
ad un ente di carattere nazionale pone in essere un’attività legittima dal punto di vista
amministrativo e non soggetta ad oneri contabili e dichiarativi sotto il profilo fiscale.
Ciò non significa, beninteso, che tutti gli altri enti non possano svolgere attività di
somministrazione di alimenti e bevande. È infatti sempre possibile, anche per un’associazione
non affiliata, aprire un’attività di somministrazione seguendo, nello specifico, le prescrizioni
contenute nell’articolo 3 D.P.R. 235/2001 (in questo caso deve essere presentata una domanda
di autorizzazione). Va da sé, però, che sotto il profilo fiscale, l’attività non può essere
decommercializzata, anche nel caso in cui sia rivolta esclusivamente ai soci dell’associazione.
Non c’è via di scampo, infine, se la somministrazione è rivolta a non soci. In questo caso, anche
se il circolo è affiliato ad un ente di promozione, l’attività va considerata commerciale. Sotto il
profilo amministrativo, le conseguenze potranno essere anche più pesanti tenuto conto che la
speciale licenza circolistica è riconosciuta, come detto, solo se l’attività è rivolta
esclusivamente ai soci.
Resta infine fermo che la somministrazione di pasti o – il che è lo stesso – la ristorazione (che,
come visto è cosa diversa dalla somministrazione di alimenti pronti e bevande) è un’attività
sempre commerciale, a prescindere dalla circostanza che chi la pone in essere sia
un’associazione affiliata ad un ente di promozione sociale ovvero sia rivolta ai soli soci.
fonte: www.ecnews.it