Mercoledì 23 Novembre 2016
La pronuncia è viziata se non analizza le incongruenze riscontrate dal Fisco affidandosi, sommariamente, a circostanze che dimostrano comportamenti corretti, ma solo in apparenza
maschere bianche
Nelle fattispecie di contestazione di operazioni inesistenti, laddove la prova dell’inesistenza venga fornita dall’Amministrazione finanziaria mediante presunzioni, il giudice di merito è tenuto puntualmente a valutare, prima singolarmente e poi complessivamente, tutti gli elementi probatori forniti dall’ufficio, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio.
In presenza di plurimi fatti, infatti, il giudice di merito incorre nel vizio di violazione di legge qualora si limiti a contestarne la capacità dimostrativa alla stregua di un sintetico giudizio di irrilevanza.
Lo ha affermato la Corte di cassazione nella sentenza 22445 del 4 novembre 2016 (di analogo tenore la sentenza 22444 dello stesso giorno.
Il contenzioso di merito
La controversia trae origine dall’impugnazione di avvisi di accertamento con i quali l’ufficio – sulla scorta di un processo verbale di constatazione della Guardia di finanza redatto a carico di una ditta individuale emittente le fatture – aveva contestato alla società contribuente, per le annualità 2005 e 2006, l’utilizzo consapevole di fatture per operazioni inesistenti, recuperando la relativa Iva portata in detrazione.
In particolare, il rilievo si fondava su alcuni specifici elementi ritenuti dai militari verbalizzanti idonei a comprovare che tra il titolare della ditta individuale e la società si nascondesse in realtà un rapporto di lavoro dipendente, con l’interposizione della prima, e la conseguente consapevolezza della società di partecipare a un meccanismo fraudolento.
Più nello specifico, il titolare dell’impresa individuale: non risultava aver istituito o esibito la contabilità relativa all’attività esercitata; non aveva dimostrato di avere la disponibilità di strumenti e attrezzature idonee alla realizzazione dei prodotti ceduti alla società committente né era stato in grado di indicare luoghi adibiti all’esercizio dell’attività; non aveva documentato con fatture di acquisto la disponibilità di materie prime o prodotti utilizzati per l’assemblaggio dei prodotti ceduti. Lo stesso, inoltre, risultava in precedenza dipendente della società, la quale, a sua volta, non aveva esibito documentazione dei rapporti con la ditta.
La Commissione tributaria provinciale di Milano accoglieva il ricorso.
La decisione trovava conferma da parte della Commissione tributaria regionale, la quale respingeva l’appello dell’ufficio; la Ctr, in particolare, riteneva che a fronte di attività dichiarata effettuata e di pagamenti riscontrati (rinvenimento presso la società di fatture emesse dalla ditta individuale con relative quietanze tramite “giro assegni, cassa contanti, bonifici bancari (la quasi totalità) dai conti della Srl” sul c/c intestato al titolare della ditta individuale), l’Agenzia delle Entrate non avesse addotto elementi idonei a inficiare tali circostanze (afferma la Ctr che non risultano accertamenti sulle imprese produttrici/fornitrici dell’impresa individuale) e che, comunque, anche le retribuzioni per lavoro dipendente avrebbero costituito per la società “costi detraibili”.
Inoltre, secondo il giudice di merito, “Le circostanze evidenziate depongono per una accertata serie di prestazioni di attività possibili nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o di attività professionale”.
Avverso tale pronuncia, l’Amministrazione finanziaria ha proposto impugnazione in sede di legittimità, eccependo – tra i diversi motivi – anche la violazione di legge in relazione ai criteri di riparto dell’onere della prova.
La decisione in sede di legittimità. I principi affermati dalla Corte di cassazione
Con la sentenza 22445 del 4 novembre 2016 (e la 22444 di analogo tenore), la Corte suprema, nell’accogliere il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, è tornata ad affrontare il tema dei criteri di riparto dell’onere della prova nelle fattispecie di contestazione di operazioni inesistenti, soffermandosi, in particolare, sulle modalità con le quali il giudice di merito deve procedere alla valutazione della prova laddove questa venga fornita mediante presunzioni.
Al riguardo, si ricorda, innanzitutto, che anche in materia tributaria trovano applicazione i criteri generali di riparto dell’onere della prova recati dall’articolo 2697 del codice civile, secondo cui “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.
In applicazione di tali principi, nella sentenza in argomento, la Cassazione ha affermato che nelle ipotesi di contestazione di operazioni inesistenti spetta, in primo luogo, all’Amministrazione finanziaria provare che l’operazione commerciale in realtà non è stata mai posta in essere (come nel caso esaminato) o è stata posta in essere in termini diversi rispetto a quelli che emergono dalla rappresentazione cartolare dell’operazione, dopo di ché – una volta provata la sussistenza della frode – grava sul cessionario o committente fornire la prova della spettanza del diritto alla detrazione.
Secondo un orientamento che può ritenersi del tutto consolidato e ribadito nella sentenza 22455 in commento – in base agli articoli 39, comma 1, lettera d), e 40 del Dpr 600/1973 (e 54, secondo comma, del Dpr 633/1972 per l’Iva) – la prova dell’inesistenza dell’operazione può essere fornita “anche mediante presunzioni, senza che l’ufficio debba fornire necessariamente altre prove «certe»”.
Ciò premesso, la Corte suprema ha evidenziato che il giudice tributario investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo – al fine di verificare la sussistenza dei caratteri della “gravità, precisione e concordanza” delle presunzioni previsti dalla legge– è “anzitutto tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi probatori forniti dall’ufficio, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma solo per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono)”.
Questo in quanto, “in tema di prova per presunzioni, il giudice, posto che deve esercitare la sua discrezionalità nell'apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi”.
In sostanza, il giudice, per rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico seguito, deve procedere attraverso una valutazione complessa, che deve essere svolta in due momenti:
una valutazione analitica di tutti gli elementi indiziari per conservare quelli che presentano potenzialmente efficacia probatoria
una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi rilevanti al fine di accertare se siano concordanti tra loro e idonei a fornire una valida prova presuntiva.
Ne consegue, secondo la Corte, che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice, in presenza di plurimi indizi, si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza svolgere i predetti accertamenti e “alla stregua di un sintetico giudizio di irrilevanza”.
Del resto, già nella sentenza 8053/2014, le sezioni unite avevano affermato che la riforma operata dal Dl 83/2012, applicabile alle sentenze depositate dall’11 settembre 2012, “non ha sottratto al controllo di legittimità le questioni relative al «valore» e alla «operatività» delle stesse presunzioni”, con la possibilità di eccepire il vizio di violazione di legge di cui all’articolo 360, n. 3), del codice di procedura civile in relazione all’articolo 2729 del codice civile.
In particolare, secondo le sezioni unite, la sentenza risulta censurabile quando il giudice del merito “abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, sussumendo, cioè, sotto la previsione dell’art. 2729 c.c., fatti privi dei caratteri legali, e incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma, esattamente assunta nella enunciazione della fattispecie astratta, ma erroneamente applicata alla fattispecie concreta”.
Con riferimento allo specifico caso esaminato, la Cassazione ha ritenuto che la Ctr di Milano non abbia proceduto a valutare autonomamente (sia singolarmente sia cumulativamente) gli elementi presuntivi addotti dall’ufficio, dando peso solamente a due elementi probatori, peraltro di segno opposto (“Le circostanze evidenziate depongono per una accertata serie di prestazioni di attività possibili nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o di attività professionale”).
FONTE:FISCOGGI