sabato 5 settembre 2015 - di Luca Vannoni
Fino a pochi anni fa, la giurisprudenza interna ribadiva costantemente nelle proprie pronunce
il principio della natura reale del preavviso in caso di licenziamento, in base al quale, pur in
presenza di atti o accordi volti all’esonero dallo svolgimento di prestazioni di lavoro durante
tale periodo con immediata corresponsione dell’indennità, si riteneva che il rapporto di lavoro
dovesse essere considerato interrotto solo al decorso, teorico e figurativo, dello stesso.
La natura reale comportava una serie di pesanti conseguenze in capo al datore di lavoro, prima
tra tutte l’impossibilità di recesso immediato con la liquidazione dell’indennità sostitutiva
disposta unilateralmente da quest’ultimo: tale situazione offriva il fianco a possibili
comportamenti ostruzionistici, ovviamente illeciti ma difficilmente reprimibili, da parte del
lavoratore.
Il caso classico era rappresentato dalla malattia simulata durante il preavviso, evento che ne
interrompeva il decorso, con la conseguenza che il lavoratore rimaneva alle dipendenze del
datore di lavoro, ancorché in presenza di un licenziamento legittimo nei suoi presupposti e
nella procedura seguita, fino al termine del periodo di comporto, mediamente 6 mesi, e per il
rimanente periodo di preavviso.
A livello normativo, al fine di disincentivare e bloccare all’origine tali comportamenti
fraudolenti, la Legge Fornero introdusse un particolare meccanismo, contenuto nel comma 41,
art. 1 (L. 92/2012) e ancora in vigore: gli effetti del licenziamento, al termine della procedura
disciplinare ovvero del tentativo obbligatorio di conciliazione per i licenziamenti per ragioni
oggettive (da quest’ultima sono esclusi sono esclusi i lavoratori a tutele crescenti), risalgono
all’inizio della procedura, anche ai fini del computo del preavviso. Pur pregevole nella sua
ratio, la norma non risolveva la questione legata alla natura reale del preavviso: quello che
serviva era un deciso cambio di rotta da parte della suprema corte.
L’indirizzo interpretativo della natura obbligatoria del preavviso, con le prime sporadiche
pronunce risalenti all’incirca al 2007, oggi si sta progressivamente consolidando, dando
maggiori certezze al datore di lavoro nella gestione della fase del licenziamento.
Particolarmente interessante è la recente sentenza del 27 agosto 2015, n. 17248, relativa alla
richiesta, da parte di 5 lavoratori, di inclusione nella base di calcolo del TFR dell’indennità
sostitutiva del preavviso, accolta nei precedenti gradi di merito.
La Cassazione ha ribaltato il giudizio, sulla base del ragionamento che l'indennità sostitutiva
del preavviso non rientra nella base di computo del TFR in quanto non è connessa con il
rapporto di lavoro stante la sua riferibilità a un periodo non lavorato, una volta avvenuta la
cessazione del rapporto, per effetto della natura obbligatoria del preavviso comportante la
risoluzione immediata del rapporto.
Dalla natura obbligatoria del preavviso discende la totale irrilevanza degli eventi successivi
all’accettazione dell’indennità sostitutiva del preavviso e, ovviamente, la possibilità di disporne
da parte del datore di lavoro, fermo restando l’obbligazione retributiva, o indennitaria in caso
di esonero dal suo svolgimento.
Sarebbe bello che tale impostazione contagiasse anche l’INPS, fermo nel ritenere, come attesta
il messaggio n.19273/12, la sussistenza dell’obbligazione contributiva del datore di lavoro
anche quando l’indennità di mancato preavviso non viene corrisposta dall’azienda, a seguito
di rinuncia del diritto da parte del lavoratore.
fonte: ecnews.it